TUTTO COOPERA LA BENE

Per anni ho pensato: "Gli incidenti capitano solo agli altri. Non si vedrà mai una sedia a rotelle in casa mia". Non che volessi essere "snob", stavo semplicemente vivendo quella realtà. La mia, era quel genere di famiglia sempre pronta a fare una partita a tennis o a prepararsi per una gita in campagna. In effetti, io e le mie tre sorelle più grandi, non ci eravamo mai slogate nemmeno una caviglia. Tutto ciò cambiò in un caldo pomeriggio di luglio del 1967, quando mia sorella Kathy ed io andammo in spiaggia a fare una nuotata. L'acqua era scura e densa e non mi curai di controllarne la profondità prima di salire su una zattera ancorata al largo. Appoggiai i piedi sul bordo, respirai profondamente e mi tuffai. La mia testa urtò contro qualcosa di duro al punto che indietreggiai con uno strattone. Provai una strana scossa alla nuca. Sott'acqua, intontita, mi sentii galleggiare trascinata dalla corrente, incapace di risalire in superficie.  I miei polmoni sembravano scoppiare, ma quando fui sul punto di aprire istintivamente la bocca per respirare, sentii le braccia di mia sorella attorno a me, che mi sollevarono verso l'alto. "Kathy – farfugliai vedendo il mio braccio senza vita sulle spalle – ho perduto la sensibilità".

Un bagnante si precipitò in acqua per portarci la sua zattera. Qualcun altro chiamo un'ambulanza. Un'ora dopo, nella sala del Pronto Soccorso dell'ospedale, le infermiere tagliarono il mio costume da bagno e mi tolsero anche la collana e gli anelli. Mi girava la testa e cominciai a perdere coscienza, quando sentii il ronzio di un trapano vicino al mio capo. L'incidente causato dal tuffo mi fece precipitare in un mondo strano e spaventoso di odori, antisettici, tubi e macchine. La diagnosi fu terrificante: frattura di una vertebra cervicali con fuoriuscita del midollo e questo causò una tetraplegia (paralizzata dal collo alle gambe).   Per mesi stetti sdraiata su una struttura chiamata "Stryker", fatta come un lungo sandwich di tela, sulla quale rimanevo a faccia in su per alcune ore e, poi venivo rigirata per evitare che si formassero delle piaghe, che vennero comunque. Persi così tanto peso, durante quei primi mesi, che le ossa cominciarono a spuntare fuori dalla pelle. Di conseguenza fui operata di nuovo e passai altri mesi sullo "Stryker". Sprofondai in una profonda depressione. Continuai a dire: "Signore come hai potuto lasciare che tutto questo succedesse a me?"  Ero già una credente prima dell'incidente e se questa è la risposta alla mia richiesta di camminare più vicino al Signore, non mi fiderò più di pregare! Ero ignara del fatto che i miei amici pregavano per me 24 ore su 24. Lentamente, mentre passavano le settimane, cominciai a sentire un cambiamento. Poco alla volta la mia rabbia diminuì. La depressione cominciava a svanire. Senza che me ne rendessi conto, Dio stava abbattendo ogni mia resistenza attraverso la potenza e l'insistenza della preghiera. Notai il cambiamento durante la terapia di rieducazione. Alcune settimane prima avevo rifiutato ostinatamente di imparare a scrivere tenendo una matita fra i denti. Ma quello avvenne prima che incontrassi Tom, un giovane tetraplegico dipendente da un ventilatore d'ossigeno, il quale era molto più paralizzato di me. Egli aveva un atteggiamento allegro ed ottimista mentre, con buona volontà, permetteva alla terapista di inserire la penna nella sua bocca. Mi vergognai delle mie lamentele. Tramite le preghiere dei miei amici e l'esempio di Tom, Dio mi stava mostrando una verità: «Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio» (Romani 8 verso 28). Forse, nel bene che Dio intendeva per me, non era compresa la guarigione fisica, ma il Suo bene mi avrebbe insegnato ad avere un atteggiamento più flessibile, apprezzamento per le piccole cose, una più profonda gratitudine per le amicizie ed un carattere che avrebbe dimostrato pazienza, tolleranza e gioia che non dipendono dalle circostanze.

Oggi, nonostante i molti anni trascorsi da quel lontano 1967, ripeterei le stesse parole. Non è stato facile, ma la potenza e la forza di Dio continuano a risplendere. D'altronde, Egli sa perfettamente come mi sento. Anche Lui ha sofferto. Siccome Gesù poté trasformare la Sua croce in un simbolo di speranza e libertà, posso io fare di meno? La mia sedia a rotelle è la prigione che Dio ha adoperato per liberare il mio spirito e per portami più vicino a Lui perché ora ho compreso che cosa vuol dire dipendere da Lui, preferendo di stare su questa sedia conoscendo Lui, piuttosto che sulle mie gambe senza Dio.